Vai al contenuto

Preludio

Ho cominciato a suonare la chitarra all’età di sette anni e mezzo per desiderio di mio padre, appassionato di questo strumento, ma privo d’istruzione musicale.
Lui suonava i cucchiai, come si faceva e si fa ancora nei paesi dalle mie parti, ed un po’ l’armonica; e della chitarra conosceva qualche accordo e un arpeggio sempre uguale. Cantava. Si divertiva anche ad improvvisare melodie su una corda sola, ed io lo imitavo ad orecchio.
Per la verità, la prima chitarra sulla quale posai le mani fu quella di mio nonno: me la trascinavo in giro per la casa, come i bambini fanno con un qualunque giocattolo, avrò avuto quattro anni e forse meno.
Mio padre strimpellava solo raramente, e di tanto in tanto ascoltava della musica da un grosso registratore a bobine. Eppure, conosceva ed amava Segovia, cosa che per quei tempi non era affatto banale.
Mi portò a lezione per tre valide ragioni: da un lato, il consueto desiderio paterno di veder realizzato nel figlio il proprio sogno, dall’altra una prepotente predisposizione, la mia, per la musica, Enrico a tavola non si canta.
Il terzo motivo? Imparare pure lui, con il pretesto di assistere alla lezione.
Da piccolo la musica mi ammaliava, utilizzavo grossi libri per costruire ciò che nella mia mente era un organo a canne, dopodiché cantavo ad imitazione di non so cosa. L’unico disco di musica colta presente in casa mia era l’Eroica del grande Ludovico, mi piaceva guardare il leggio stampato sulla copertina. Passavo in compenso gran parte della giornata ad ascoltare musica dal mangiadischi, le mie canzoni preferite erano quelle di commento alle fiabe sonore. Ballavo.
Il mio primo maestro, e parliamo dei primi anni ’70, lavorava per la RAI di Torino
E doveva essere , per l’epoca, un ottimo chitarrista. Lo comprendo ora.
Incredibilmente severo, faceva lezione in un ambiente austero e semi buio, utilizzando metodi didattici invero strani, cordicelle per tirare il gomito e matite da stringere col mignolo della mano sinistra, quest’ultimo al fine di compattare l’impostazione della mano ed esaltare l’autonomia d’articolazione.
Io non ne volevo sapere. La chitarra, fino ad allora giocattolo meraviglioso, cominciai ad odiarla profondamente: mio padre dopo un anno se ne accorse e mi portò da un altro insegnante, più simpatico, più giovane e meno preparato. Ho un buon ricordo di quest’uomo, che possedeva tra l’altro una splendida Contreras perennemente rinchiusa in una vetrina, la bella addormentata.
Furono le circostanze della vita, che non starò a citare, a riportarmi dal primo e vecchio maestro anni dopo, ma l’incontro ed il ciclo di lezioni che ne seguirono non furono buona cosa per me e così cominciai il mio viaggio senza soluzione di continuità, rincorrendo sempre la figura del vero Maestro, figura che per me sarebbe rimasta chimera, almeno fino a quando non presi a ragionare allo specchio, con i dischi di John Williams di commento, nelle orecchie.

Ho avuto un’adolescenza musicalmente inquieta, sul fronte classico ho avuto non meno di tre insegnanti diversi, ma i ricordi stentano a riaffiorare nitidamente.
Non suonavo quasi nulla di quanto essi mi sottoponevano, studi orrendi tratti da metodi mediocri, esercizi tecnici mortalmente noiosi e privi di musicalità, simulacri di una vita (la loro) spesa assai malamente. Mi divertiva il solfeggio cantato e mi piaceva inventare canzoni, adoravo gli arpeggi come un aristogatto. I miei eroi erano Bach e Giuliani, e tali sarebbero rimasti, mentre detestavo gli spagnoli tardo romantici: e tuttavia, non era affatto agevole procurarsi musica di questi giganti, che li stimassi o meno. Le librerie musicali, quelle poche, erano intasate di Sagreras e di qualche Carulli. Nell’arco di pochi anni sarebbe cambiato tutto, ma sul finire degli anni ’70 le cose stavano ancora così. E poi il mondo intorno pulsava, le canzoni premevano, così come il plettro e la corda d’acciaio. In un attimo mi ritrovai con un’imitazione della Strato rossa fiammante tra le mani, con un amplificatore in camera, manifesti colorati alle pareti. Diventai amico di un ragazzo più grande di me di qualche anno, suonava divinamente tutto con una disinvoltura sorprendente. Passava da Villa Lobos all’improvvisazione modale, come se la Musica fosse una sola, i generi una convenzione sciocca. So per certo che è diventato un grande jazzista, ma non l’ho mai più rivisto.
Al momento in cui lo incontrai però, sprofondai per un certo periodo in una grave crisi d’identità, era davvero troppo bravo ed al suo cospetto mi sembrava di non saper fare nulla. Non potevo saperlo a quindici anni, ma avevo avuto il privilegio e la fortuna di confrontarmi con un artista vero e già formato. Io alla chitarra preferivo ancora la palla in tutte le salse.
Ad ogni buon conto, lui pure mi notò e mi propose di suonare nel suo gruppo, gruppo che per qualche anno divenne anche il mio. Provavamo tre volte alla settimana, io avevo trovato il modo di posizionare l’amplificatore sulla bicicletta e così, con la chitarra a tracolla, affrontavo la trasferta lunga quanto mezza città. Finivamo di suonare ad ore improbabili, a scuola andava malissimo. Nella mia testa pochissima matematica e sempre più note. Seguirono un certo numero di concerti, diverse registrazioni, normale amministrazione per una band di belle speranze. Una volta arrivò in sala un sedicente produttore che ci promise mari e monti, ma non se ne fece nulla. Nel frattempo, quel che più mi premeva, succhiavo tutto il possibile dal leader del gruppo il quale, ad un certo punto, resosi conto dei miei progressi, cominciò a nascondersi un po’ di più, in una comprensibile dinamica di mantenimento dello status.

Il gruppo finì la sua storia quando io, da più di un anno, già lo avevo abbandonato nella mia mente. La chitarra classica con i suoi moti di solitudine ed i suoi cristalli colorati mi aveva richiamato a sé, complice forse una delle estati trascorse dai miei parenti spagnoli; un suonatore di flamenco mi suggestionò sulla via del mare. Un perfetto sconosciuto, un autentico angelo nero, un gitano della strada, che se la rideva del dittatore Franco, oramai morto, e intonava inni a Lorca ed alla libertà. La vita, si sa, è fatta d’incontri.