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A specchio

Insegnare raramente è una scelta, di solito ci si arriva per contrarietà. Da diverso tempo avevo qualche allievo privato, qualcuno lo ospitavo nel retro bottega di mia madre, qualcun altro lo raggiungevo a domicilio. Insegnavo anche in due scuole, ma c’erano pochi allievi e la paga era da fame.
Nel momento in cui realizzai che sbarcare il lunario era la priorità, e che la vita del marinaio musicante non mi si confaceva, pensai alla possibilità di insegnare in un luogo stabile e mio. L’idea non era male, in quegli anni si poteva ancora immaginare di avviare una piccola attività partendo dal nulla, il problema era partire senza un soldo, nel vero senso della parola. Affittai assieme ad un grande amico d’infanzia una vecchia fabbrica di caramello sfitta dagli anni ’50 e imparai a fare un sacco di mestieri sconosciuti, tra cui il disinfestatore, il muratore, il decoratore, l’elettricista, il progettista di contro soffittature, costruttore di mobili, e chi più ne ha più ne metta. In quel locale ci lavorarono un po’ tutti, in molti si prodigarono nel dare una mano, ci vollero mesi. La mia parte di quattrini, quattro soldi, me la prestò il padre della mia ragazza dell’epoca, un gran bel gesto a ripensarci oggi.
Nell’anno del Signore 1988, arrivammo alla fine del lavoro, approntammo il locale, altro non era alla fin fine che un seminterrato buio e fumoso, appena accettabile agli occhi per via della moquette tutta nuova e del legno perlinato copiosamente sistemato in ogni dove.
Nel giro di un anno si creò però un bel giro di gente, trovammo un paio di collaboratori eccellenti, ci ripagammo le spese e io cominciai a guadagnare. Insegnare è un fatto di sensibilità, non è poi così importante quanto sei bravo a suonare, molto più determinante è quanto riesci a comunicare. L’abilità del maestro sta nel trovare la chiave giusta per arrivare in soccorso di tutti. Da giovani, quel che principalmente manca è l’esperienza, in tutte le cose. Quando mi ritrovai a fare diverse ore di lezioni tutti i giorni, dopo un primo grande entusiasmo, realizzai che mi veniva meno il tempo per studiare e rinfrescare il repertorio, leggere musica nuova. Presi dunque l’abitudine, mai più abbandonata, di suonare assieme agli allievi i brani che gli assegnavo di compito, le scale, gli esercizi più semplici, qualunque cosa pur tenermi in costante allenamento e costringermi a variare metodi e spartiti didattici, al fine di non morire di noia. Finalmente, si trovavano nei negozi con grande facilità edizioni musicali disparate; vicino all’associazione era nata da poco una biblioteca musicale, che permetteva addirittura l’uso della fotocopiatrice.
Nel giro di pochi mesi, avevo nella mia libreria così tanta musica da leggere e studiare per me e per i miei allievi da farmi sentire ricco.
Sul principio insegnavo di tutto, anche quello che non sapevo fare, come suonare il basso elettrico, ma non me ne rendevo realmente conto. Ero semplicemente convinto di essere talmente in gamba da potermi permettere ogni malefatta. Sul finire degli anni ottanta, sembrerà strano, ma ancora erano altri tempi. I maestri di musica che insegnavano qualunque cosa erano molti sulla piazza, maestri in un tempo di chitarra, pianoforte, violino e flauto traverso, organo e clarinetto, teoria e solfeggio, mandolino. Tutto. Io mi limitavo ad insegnare chitarra in tutte le salse e basso, per arrotondare, con una gran faccia tosta e la verve dei vent’anni. Fortunatamente, quell’indirizzo bacato durò assai poco; mi arrivarono un paio di allievi ben attrezzati che subitaneamente mi fecero capire che anche l’insegnamento ha le sue regole precise, prima tra tutte l’essere realmente competente. Non c’è frustrazione più grande di quella che ti reca un allievo che se ne va perché sei un incompetente. La vita è fatta di lezioni.