Forse non tutti se ne sono accorti, ma la tecnologia ha espropriato la magia della musica dalle mani dei musicisti. Da stregoni a ultima ruota del carro. Per come sono fatto, non suonerei mai per qualcuno di cui non ho stima, se pure mi pagasse fior di quattrini. Ebbene, quel qualcuno un tempo sarebbe rimasto senza musica, o comunque senza la mia musica, mentre oggi può tranquillamente rilassarsi sulla sua poltrona migliore ed ascoltare in cuffia la performance del più grande chitarrista della terra. Domani, quel qualcuno schiaccerà un tasto del telecomando e apparirà nel suo salone l’ologramma di Mauro Giuliani, pronto a replicare per lui solo il celebre concerto tenuto a Vienna in presenza di Haydn. La musica non è più dei musicisti, i suoni non sono più della chitarra, tutto è filtrato, mediato, modificato e snaturato, tanto nelle registrazioni che dal vivo.
Una volta, proposero a me e ad un mio collega di andare a suonare all’estero per l’estate ormai prossima. Ottima paga, dettaglio importante: si trattava di stare sul palco di un locale notturno e far finta di suonare, vestiti da gran sera, con fare serioso da professionisti. Rifiutammo entrambi.
Eppure, la rivoluzione del computer è quella che più di ogni altra ha segnato la mia evoluzione di compositore, e credo che così sia stato per moltissimi altri.
Quando per la prima volta cominciai a trafficare con i software di scrittura musicale, presi a trascrivere su PC le decine di cose che avevo scritto in tanti anni, composizioni di carattere d’ensemble o orchestrale, pop, di tutto un po’. La gioia che provai nel sentire finalmente con le mie orecchie quel mare di musica sommerso ed accantonato nel tempo fu indescrivibile, per quanto ad eseguire fosse un computer nemmanco attrezzato come si deve. La fregatura era dietro l’angolo, e scoprii a mie spese che i software musicali avrebbero dato, di lì a pochissimo, la possibilità a gente spesso mediocre di scrivere musica e commercializzarla con ottimi risultati. Scrivere un misero quartetto d’archi a mano può impegnare molto tempo, ma scriverlo con ausilio di un buon programma è davvero un mezzo scherzo, a conoscere il mestiere: si abbozza, si riascolta di continuo, si procede ad orecchio, non servono prove di sorta. Tutto ciò naturalmente per sommi capi e con beneficio d’inventario, ma la sostanza è questa.
Scrivere musica oggi significa soltanto avere qualche idea ed un buon banco suoni sul computer. Commercializzare musica oggi significa soltanto avere le aderenze giuste.
L’accesso alla musica è talmente facile e capillare su internet che davvero non è più possibile parlare di musica originale, o di autenticità creativa. Assistiamo al plagio di un plagio a sua volta plagiato, e questo accade di continuo, in modi e forme che riflettono soltanto la buona o cattiva preparazione del musicista, capace in taluni casi di operare con gusto e sensibilità, capace in altri casi di copiare in modo becero un’idea musicale di uno sconosciuto che vive dall’altra parte del pianeta.
Io stesso, quando mi accingo ancora oggi a scrivere, mi muovo in un moto di suggestioni talmente sconfinato da farmi dubitare di avere avuto mai, almeno una volta, un afflato realmente creativo, e penso piuttosto che in un modo più o meno inconscio tutte le note e le atmosfere che ho inchiodato sulla carta siano appartenute già ad altri prima di me, e che forse il solo filtro della mia sensibilità riconduca le cose che scrivo al mio io profondo. Quel che si dice scoprire l’acqua calda.
Quando ascoltiamo qualcosa che ci sembra nuovo, è solo perché ne ignoriamo la vera origine; è probabile che dopo Bach sia rimasto poco da dire.
Qualcuno ha infine compreso che l’ascolto della musica fa bene allo spirito degli uomini, guarisce gli oppressi, che Mozart aiuta le piante a crescere, che l’inno tedesco stimola l’amor patrio, che i bambini intonano a orecchio meglio del pianoforte e preferiscono leggere piccoli fiori al posto delle note severe.
Abbiamo tanti piccoli Ludovico, che all’età di sei anni tengono concerti, e poco importa se questi talenti ancora adolescenti hanno già smesso di suonare, ci sono scuole che non accettano bambini di sei anni perché troppo vecchi, si sa, la musica va appresa precocemente per ottenere i grandi risultati, ci sono scuole di stile, di smorfie, di portamento, insegnamenti deleteri e deformanti per il cervello, che tendono a plasmare l’artista dall’avvenire sicuro, ché nulla sia lasciato al caso. Si assiste così all’entrata in scena dell’ultima chitarrista di grido, la diva del palco con le dita di titanio, la chitarra di nuova concezione costruita appositamente per lei dal liutaio di moda, chitarra ancora di legno in apparenza, di plastica nella sostanza.
È l’accademia contemporanea.
E poi ci sono i nuovi mostri, quelli veri. Gente che suona sotto precise disposizioni di Dio, con due mani, un piede e il naso, e nel frattempo tiene una poliritmia col piede di riserva, soffia sulla cassa microfonata, armonici che si riverberano tutto intorno.
Sono i Giullari di oggi, il popolo sarà sempre con loro.
Poi ci siamo noi, ché qualcuno è rimasto.
Strabiliati dai mostri, ammaliati dalle dive, già in difficoltà nel comprendere la dodecafonia, figuriamoci il resto.
Degli altri non parlo, la musica leggera presenta simboli che davvero con l’arte più nulla hanno a che fare. E neppure con l’onestà.
Mi è capitato, neppure troppo tempo fa, di collaborare al progetto del nuovo cd di una celebre e storica pop band italiana assieme ad un caro amico e ad un altro amico suo. In estrema sintesi, dirò che l’intero lavoro, mi pare dieci canzoni, sono opera loro, ed anche un po’ mia; non provini abbozzati, ma pezzi fatti, arrangiati e finiti.
Ebbene, il cd ha venduto non so più quante mila copie, dicono duecento. Non parlerò della qualità del lavoro, trattasi di musica commerciale. Parlo invece dei diritti d’autore, usurpati, dei soldi, mai arrivati, dell’ipocrisia infinita di questi signori che prendono in giro il mondo intero cianciando di fratellanza e buoni sentimenti, e che poi, appena dietro le luci del palco, sono autentiche merde.
E ancora, un ragazzo al quale ho scritto due canzoni per la selezione sanremese, selezione fatta di interminabili preselezioni in giro per il bel paese. Lui, che arrivava dalla ben nota accademia, aveva sborsato l’anno prima una cifra portentosa al suo maestro di canto per identico lavoro. Il suo maestro era uno dei boss dell’Ariston, non nuovo a simili prodezze.
La faccenda funziona così io boss ti insegno qualcosa e tu mi strapaghi poi io boss ti scrivo un pezzo tu me lo strapaghi grazie al mio pezzo che è poi una semplice base in stile karaoke superi un tot di selezioni in televisione non ci arriverai mai se non ti chiami o non conosci o non varie altre ma questo non te lo dirò mai e lo negherò comunque sempre tutto chiaro?
Il ragazzo arrivò da me. Mi parlò dei suoi propositi, io gli dissi che secondo me erano propositi irrealizzabili. Lui capì la cosa. Alla fine si decise a partecipare ugualmente, senza assurde speranze di arrivare chissà dove. Io scrissi i pezzi, andammo in sala per registrarli con dei musicisti veri. Chiesi un compenso equo. Arrivò fino alla semifinale e un pezzo enorme della giuria si complimentò con lui per la bella canzone originale che portava. Poi lo eliminarono. Mi pare che oggi faccia il barista.
Per fare successo oggi bisogna fare così: scrivete qualche canzone, trovate un bravo arrangiatore, qualche musicista di buona volontà che vi dia una mano. Preparate una Demo e poi, se vostro padre conta qualcosa, fate un bel contratto con un’importante casa discografica. Cadenza, gente mia.