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Fuga

La musica è per me sempre venuta prima della chitarra, l’idea del canto prima delle corde. Da anni trafficavo con i sintetizzatori, autentica frontiera dell’evoluzione del linguaggio musicale. Mi riusciva di fatto difficile capire l’arcano secondo il quale fare musica contemporanea significasse percuotere in modo ridicolo strumenti antichi di secoli, quali violini, flauti e chitarre. Un giorno capirò, pensavo. Ma quando ebbi modo di conoscere per bene un celebre compositore contemporaneo, ed il suo intero entourage, rimasi stupefatto da quel che scaturiva dal suo dire.
Ragionare intorno alla matematica della musica può essere molto interessante, ma il fatto è che un uomo discretamente stonato e privo d’orecchio musicale, ancorché assai colto e dotato di gran favella, bene farebbe a dedicarsi a cose altre nella vita, piuttosto che alla composizione. Una sera il tizio in questione mi telefonò, sapeva che trafficavo con aggeggi elettronici: aveva necessità che gli prestassi assolutamente un distorsore da collegare al microfono del gran coda per il concerto della sera stessa.
Poiché per settimane altro non aveva fatto che illustrarmi gli studi sul decadimento degli armonici che stavano alla base della sua opera, dettagli infinitesimali che spaccavano il semitono in quattro oltre che il capello, gli spiattellai lì per lì tutta una serie di dubbi che nutrivo sul quel suo progetto dell’ultima ora. Non mi diede retta, io non feci altre domande. Dirò solo che la città era piena di manifesti per l’evento di quella sera e che il concerto si tenne regolarmente, con quali risultati poi non saprei.

Per me scrivere musica è sempre stata una cosa naturale, e lo dico senza falsa modestia.
Alle medie avevo variato la celebre melodia di Enrico VIII introducendo due contro temi di mio gusto, l’allora professoressa mi aveva pure gratificato con un bel nove.
Chissà perché non dieci. Scrivevo i pezzi della band, scrivevo le mie suite barocche in stile falso d’autore, plagiavo Giuliani, scrivevo canzoni, davvero pessime all’inizio. Ad un certo momento, mi resi conto però che la chitarra non mi bastava affatto per tradurre in materia sonora il mio spirito creativo, ero molto più interessato ai suoni che non alle note in senso pentagrammale. Mi comprai un sintetizzatore per chitarra, uno dei primi, una macchina fantastica per l’epoca e in un tempo ridicola se guardata con gli occhi di oggi. Non soddisfatto passai direttamente alle tastiere, regine incontrastate del sound primi anni Ottanta.

Quando maturai di botto, compresi che i suoni che avevo in testa non avevo modo di raggiungerli con i modesti mezzi di cui disponevo. Giunsi quindi alla definizione di un processo compositivo che anche in seguito, nella sostanza, non sarebbe più cambiato.
Da un lato, non potendo realizzare concretamente i miei progetti musicali più vasti, mi limitavo ad inchiodarli su carta, in attesa di un giorno propizio. Dall’altra, tornai alla chitarra per scrivere musica originale senza il bisogno d’altro che non fosse fantasia e ispirazione.
Per altro, avevo la testa piena di nuove suggestioni. Mi ero avvicinato al flamenco, ed ero andato a lezione da un bravo jazzista per un paio d’anni. Un pazzo scatenato con il quale alla fine scesi a patti, tu mi insegni a improvvisare come il cielo comanda e io ti insegno ad arpeggiare a pari condizioni. Raggiungemmo risultati apprezzabili entrambi. Il fascino delle scale da sei note bianche e l’amore per Bach completavano un quadro di fatto caotico, ma potenzialmente assai ricco.
Quando un amico più grande di me, chitarrista anch’egli, mi offrì l’opportunità di incidere un disco, non tentai neppure di operare una sintesi di stile, ero ancora troppo acerbo; al contrario, mi rifugiai nella mia ultima passione del momento, sposare l’anima della chitarra spagnola con un sintetizzatore.
In un paio di settimane tirai giù la danza.
Grazie all’aiuto dell’amico più grande, che pagò per intero le cospicue spese di realizzazione, andai in sala e registrai in quattro ore tutto quanto.
Venne fuori uno strano coacervo di citazioni e tributi, a tratti anche ispirato, ma sostanzialmente acerbo e banalotto.
E ciò nonostante un insegnante del conservatorio, dopo averlo ascoltato con attenzione, si complimentò vivamente ed in modo spontaneo. Disse : “dopotutto, c’è ancora spazio per la musica!”